ASPETTI SOCIO-ECONOMICI DELLA MOBILITA'

L’evoluzione della nostra società dagli anni Cinquanta ad oggi e la sua interpretazione passano dalla cruna di alcuni parametri, tutti economici, che investono anche la componente sociale. Il miglioramento della qualità di vita è forse percepibile da parametri socio-sanitari quali la eradicazione di alcune malattie epidemiche come la poliomielite e la derubricazione di altre a malattie endemiche come la TBC.

Conta poco tuttavia che il reddito medio sia più sostenuto e che la sua distribuzione stenti ad un processo perequativo. E’ di certo indubbio che le fonti di produzione dei redditi  siano notevolmente cambiate. La società industriale ha lasciato una società post-fordista dove, più che la produzione di merce, conta la sua redistribuzione in sede territoriale ed extra territoriale. Se minori sono i problemi che la distribuzione all’interno dei confini nazionali comporta, più problematica è l’espansione post-industriale al di fuori dei medesimi confini dove il mercato globale ha imposte regole non sempre possibili per i produttori italiani.

Conta in modo determinante il ruolo che il maggiore complesso industriale italiano ha giocato negli ultimi decenni. La FIAT ha condizionato il modello di sviluppo italiano dapprima industriale e lo ha condizionato anche quando questo è divenuto post-industriale, in parte adeguando le proprie tendenze produttive ( da auto ad altri mezzi di trasporto per poi diventare holding finanziaria) ed in parte derivando l’indotto verso altri target produttivi.

La vettura e tutto il mondo che essa genera (da quello industriale dei carburanti a quelle delle gomme a quello delle strade ) è dunque protagonista. Se ci sono macchine, ci devono essere infrastrutture per accoglierle e quindi si autogenera un mercato produttivo che viene sempre reinvestito in vetture. Così si passa dagli anni Cinquanta a quelli d’oggi in cui muta il rapporto tra l’utente e la vettura. Nei primi anni la vettura era primus status symbol, acquistata ed usata da pochissimi: la circolazione anni Cinquanta era più domenicale che nei giorni lavorativi, nel segno di un uso limitato della vettura a fini produttivi o economici. Nascono le gite fuori porta quando, da status symbol, la vettura diviene oggetto di mero consumo alla portata di tutte ( o quasi) le famiglie. Ma quando si andava in fabbrica la si lasciava a casa.

Negli anni post-fordisti la vettura diviene da facoltativa obbligatoria, non solo in termini di possesso ma anche di utilizzo. Viene adoperata dunque per le attività giornaliere. la mobilità è insostenibile già nella mentalità della gente. Basti pensare che l’80% del traffico delle principali città italiane ( sopra 500 mila abitanti) è sostenuto dal privato e che solo il 20% è pubblico. In queste città la velocità media è pari a 5 Km/h, a Roma nel centro storico 2,5, come cioè la velocità di un podista. Solo nelle città con meno di 500 mila abitanti, che presentano un traffico al 38% pubblico ed al 62% pubblico, si assiste ad un maggiore uso di mezzi alternativi come la bicicletta, diffusa al Nord nella misura dello 0,8 ed al Sud dello 0,2%.

Questo è lo scenario non più della città industriale ma di quella post-industriale dove la produzione delle fonti di reddito non è più nel prodotto finito bensì nel suo utilizzo e nei modi di usarlo. E’ la società del terziario, della ampia comunicazione e scambio di merci materiali ed immateriali dove la fonte di reddito è direttamente proporzionale alla mobilità con cui lo si scambia.

In una società post-industriale e del terziario, si affida ai mezzi di trasporto il prodotto per la sua distribuzione. Ergo una società diventa tanto più ricca quanto maggiore è il flusso dei prodotti smerciati. Ma questo ha un suo punto di saturazione che si chiama circolazione: quando la circolazione diventa traffico, il processo produttivo si arresta e si autolimita. Una società post-industriale avanzata è quella in cui il massimo rendimento economico è inversamente proporzionale all’entità di traffico generato, e direttamente proporzionale all’entità di traffico gestito. La ripartizione tra traffico generato dalla quota economica e la sua gestione in termini di economicità si riconduce ad una formula fisica ideata da Bernoulli. Il flusso di una sostanza allo stato liquido o gassoso in un cilindro assume andamento laminare e regolare fino alla modifica di due soli parametri: o aumenta il flusso (contenuto) o si riduce il contenitore, a quel punto la generazione di flusso diventa fonte di irregolarità fino alla formazione di flussi vorticosi. Dunque la corrente di traffico può generarsi indipendentemente dalla modificazione del letto contenitore fino a raggiungere l’arresto. Il concetto di traffico si identifica dunque con il concetto di paralisi che, riferita ad un’entità sociale, significa paralisi della fase produttiva. Non a caso per spiegare alcuni problemi di traffico o congestione urbana, si ricorre alla similitudine della circolazione polmonare dove il reddito è l’afflusso di ossigeno ai tessuti e questo è impedito o limitato solo dalla paralisi circolatoria per riduzione del letto capillare ( insufficienza di letto stradale) o dall’aumento dei globuli rossi che si identificano con i veicoli. Il loro straordinario aumento può portare all’embolia ossia all’ostruzione dei vasi ossia dei contenitori stradali.

Se dunque il reddito economico è l’ossigeno, un sistema ad alta tenuta è un sistema gestito e non generato.

Questo giustifica anche il ricorso a cicli e motocicli nella dinamica degli spostamenti del terziario. E’ interessante notare che l’eccessivo ricorso alla vettura privata (fino a 1024 vetture /1000 abitanti, ossia più auto che fruitori delle stesse) ha portato a considerare il motociclo come veicolo risolutore del problema spazio-tempo. Il lettore sarà di certo sorpreso nell’apprendere che il massimo numero di cicli per abitanti non è prerogativa delle metropoli ( Roma, Milano, Torino, Napoli) bensì delle piccole province. Circolano più moto a Rimini che a Firenze, a Pesaro che a Roma. Lo stesso dicasi per la distribuzione delle vetture private. La spiegazione non è facile ma certo prevalgono i criteri di difesa dell’automatismo della fonte di reddito, minore nella piccola città piuttosto che nella grande, dove le risorse sono differenziate e dove l’offerta di trasporto pubblico è necessariamente più limitata, dagli spazi urbanistici od orografici più esigui. Chi penserebbe di costruire a Macerata o a Belluno una metropolitana, ancorché leggera?

Dunque una società ad impronta dinamica, tesa alla distribuzione più che alla produzione. Questo ha anche reso più difficile la prevenzione del danno stradale, perché la vettura è diventata ubiquitaria, indispensabile ( una testa, una vettura). Ma ha anche dilatato il concetto di educazione stradale che dalla sicurezza stradale ha sconfinato nello studio dei comportamenti stradali e soprattutto nei comportamenti della mobilità. Un sondaggio del CESAER ( 2002) indica che il punto di riferimento per la mobilità è solo la vettura privata, mentre al trasporto pubblico si riserva solo il 28-20% della mobilità urbana. Non è detto che questi siano i comportamenti dinamici della società del futuro. Ma certo è che il processo di inurbamento non trova arresti. L’80% della popolazione mondiale vive in agglomerati urbani ed il suo 76% in città con più di 500 mila abitanti. L’esempio cinese ne è dimostrazione: la Cina è uscita da quel coacervo di fattori socio-economici che la destinavano ad un mondo ghettizzato. Ma in quest’ultimo il 20% della popolazione, quella più ricca, possiede l'82,7% del reddito mondiale e il 20% della popolazione, quella più povera, solo l'1,4%. Dunque emerge che la globalizzazione che crea poveri marginalizza sempre di più nella città aree e sacche infoltite ed accresce un solco di divario economico che il terziario non riesce a colmare e tanto più è cospicuo il ricorso alla mobilità privata, con le vetture, tanto maggiore appare il divario economico nel segno che la mobilità crea ricchezza e diventa risorsa, il suo contrario, il traffico, la impedisce.