LA CASTA SECONDO R.E.D.S.
109 miliardi di euro. Ovvero il 70-80 per cento del budget. Tanto pesa la sanità nella partita per le regionali di marzo. Una montagna di denari che vanno ad alimentare migliaia di posti di lavoro, milioni di euro di appalti e convenzioni e, quindi, altri posti di lavoro.Ma anche un esercito che assedia le casse della salute per fare fatturato, scambiare favori, spesso rubare. Le cronache raccontano ormai quasi quotidianamente come questa corsa all'oro si traduce spesso in disservizi, malasanità, mazzette e malversazioni.Ma lo stillicidio delle cronache è solo la punta fragile di un iceberg che ha una base ampia e solida: l'intreccio tra sanità e politica che quando deteriora nella corruzione e nel malaffare produce morti e dolori; ma sempre e ovunque governa la nostra salute secondo diversi criteri, virtuosi o clientelari che siano. I governatori sanno che dalla gestione della sanità dipende il consenso. Sennò perché uno come Roberto Formigoni la gestirebbe in proprio, affidando all'assessore niente più che la piccola cucina quotidiana? O perché la Toscana per la terza volta candiderebbe alla presidenza della regione un ex assessore alla Sanità, come fu il governatore uscente Claudio Martini e oggi è il candidato del centrosinistra Enrico Rossi? Ospedali, cliniche, ambulatori, presidi sanitari di base, farmacie: sono le sedi del partito della sanità, dove i candidati si giocano tutto. Vediamo quali sono i meccanismi che governano le regioni al voto.
Lombardia
Il super partito della sanità lombarda targato Comunione e liberazione si prepara alla conta. Il problema non è solo lo sfidante Filippo Penati o il rapporto con Pd e coop rosse, che sgranocchiano, nei fatti, briciole. L'incognita maggiore è il peso che Bossi potrebbe acquistare al Pirellone se, come prevedono i sondaggi, la Lega sorpassasse il Pdl. Un risultato che avrebbe come effetto la rivoluzione delle poltrone in sanità. E così la controffensiva di Cl è partita proprio dagli ospedali. Mobilitati per fare il pieno di voti per il Pdl. n Lombardia la sanità significa 100 mila dipendenti pubblici e 10 mila privati, 180 fra ospedali, presidi e ambulatori e 56 mila posti letto nelle residenze per anziani. Con un giro d'affari di oltre 16 miliardi di euro, e il 30 per cento che finisce in tasca alle lobby private. La più importante è guidata da Giuseppe Rotelli, proprietario del gruppo San Donato, che controlla anche l'11 per cento di Rcs-Corriere della Sera. Altri pilastri sono Humatitas-gruppo Techint della famiglia Rocca, il San Raffaele di don Luigi Verzè, Multimedica di Daniele Schwarz. Un blocco da quasi 8 miliardi, che sta acquistando posti letto ceduti dal sistema pubblico, e da cui Formigoni conta di ottenere appoggio pieno anche grazie a una legge che consente alle Asl di aumentare le tariffe che rimborsano alle strutture accreditate di una quota che oscilla tra il 19 e il 25 per cento. Vale solo per gli Irccs, gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico; e disposizioni analoghe le hanno emanate anche altre regioni. Ma qui la faccenda ha un altro peso: nell'ultimo quinquennio molti nosocomi privati hanno ottenuto la 'promozione' a Irccs. "Si tratta di circa 100 milioni in più, agili di distribuire", spiega il consigliere dei Verdi, Carlo Monguzzi.
Lazio Non credo che il primo modo per rientrare dal debito sia tagliare posti letto", anche se nel Lazio i letti sono 5,7 ogni mille abitanti contro i 4,5 della media nazionale. Con ciò rassicurando il partito della spesa sanitaria che, nel Lazio, ha due stakeholder: il Vaticano e la Cei, confortati dall'accordo con l'Udc, e gli imprenditori della sanità privata con in testa la famiglia Angelucci, proprietaria anche del quotidiano 'Libero' che ha fatto capire da che parte stava, attaccando sguaiatamente le convinzioni di Emma Bonino a difesa della legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza. D'altra parte la famiglia Angelucci ha perso, per colpa del piano di rientro della giunta Marrazzo, la ragguardevole cifra di 20 milioni di euro. Colpito è stato il core business delle cliniche Tosinvest di proprietà della famiglia, la cosiddetta 'riabilitazione', un buco nero che nel Lazio fagocita circa 500 milioni di euro l'anno e ha un testimonial d'eccellenza nel fratello del presidente della Camera, il professor Massimo Fini, direttore scientifico della struttura fiore all'occhiello del gruppo Angelucci, il San Raffaele alla Pisana. Non solo: gli Angelucci hanno in ballo anche un incongruo contratto di servizio con l'Ifo, l'oncologico romano, che obbliga il nosocomio pubblico a comprare da loro servizi per 22 milioni di euro l'anno. Il contratto, che ogni direttore generale dell'ospedale ha definito un cappio al collo, è stato firmato nel 2001 e ha una durata di nove anni con rinnovo automatico, se nessuno fa niente per disdirlo.
Ma il Lazio ha da solo un deficit che è la metà di quello nazionale: quest'anno, dopo tagli e aumenti di aliquote regionali, supera il miliardo e 900 milioni di euro. Il rebus delle elezioni di marzo lo riassume il senatore del Pd Lionello Cosentino, grande esperto di sanità laziale: "Il Pdl vuole riaprire i cordoni della borsa: non tener conto dei vincoli di bilancio, come fece con diversi escamotage la giunta Storace che se ne andò con un debito di 10 miliardi. E far ripartire la spesa. Nel Lazio ogni cittadino spende il 20 per cento in più di quanto spendano un lombardo e un emiliano per avere servizi peggiori". Così mentre Emma Bonino terrorizza i professori promettendo di mettere su Internet i curricula degli aspiranti primari e insiste sulla necessità di modernizzare il sistema sanitario della regione, Polverini conforta i gran commis della salute. Che ben conoscono la triste equazione: rimettere in piedi i conti e i servizi significa tagliare posti letto nelle cliniche, e anche negli ospedali religiosi che hanno molti posti letto di medicina generale (quelli a più alto rischio di essere usati per parcheggiare i malati e non curarli), non si sono qualificati sul piano delle eccellenze e vivono una profonda crisi, il Cristo Re e il San Carlo di Nancy per primi. Ma anche il dermatologico Idi è in sofferenza. Tutti sono governati da congregazioni religiose e cari al vicariato che teme la Bonino forse più per la loro sorte che non per la promessa di rendere disponibile la pillola Ru486.
LA MAGNA SICILIA :LA POLITICA DELLE AUTONOMIE PRODUCE SOLO SPRECHI?
“Un’opera strategica per lo sviluppo della Sicilia”. Di fronte all’ennesima interpellanza, i parlamentari regionali non hanno resistito: altri 5 milioni di euro, il Maac, consorzio che si adopera da 28 anni per far costruire il mercato agroalimentare di Catania, continuerà a vivere. E spendere: fino a oggi è costato 50 milioni di euro. Ha quattro impiegati, ma ben cinque consiglieri d’amministrazione: 170 mila euro l’anno per l’incomodo. La munifica società è una delle 31 partecipate della Regione Siciliana. Una dépendance amministrativa che dà lavoro a 4.339 persone, quasi lo stesso numero dei dipendenti della Lombardia. Di cosa si occupano? Di tutto. Sono utili? Raramente. “Ci sono situazioni paradossali e scandalose” ha ora sentenziato la commissione Attività Produttive, che ha fatto cernita delle inefficienze.
I perennemente nascituri mercati catanesi sono un caso limite? Macché, basta spostarsi a Messina. Qui, nel 1951, venne creato EAPAM ente Porto che si sarebbe dovuto occupare di una zona franca. Non è mai nata. Palermo però ha continuato a elargire danari. Dove sono finiti? Soprattutto nelle tasche di nove amministratori e quattro sindaci.
Per non parlare della SOCIETÀ DELLO STRETTO che per alcuni progetti ha speso 12 milioni di euro ed ha un esercizio di ben 250 milioni di euro/anno. Nel quadriennio 2003/2006 tutte le voci delle suddette spese hanno subito forti incrementi, con un’oscillazione minima del 50% sino a quella massima del 1.000%, rispetto all'esercizio-base 2002, per le spese di propaganda e pubblicità, passate da 110.000 euro nel 2002 a 1.480.000 euro nel 2004; particolarmente rilevante è stato l'aumento della voce "emolumenti e gettoni di presenza amministratori", stabilita in 526.000 euro nel 2002 con un picco di 1.616.000 euro nel 2006, con un incremento di circa il 200%, essendo stata triplicata la spesa-base 2002, secondo una costante elevazione dei costi di circa 140.000 euro nel 2006 rispetto al 2005 e di circa 639.000 euro nel 2003, nei confronti del 2002: maggiorazioni prodottesi appena Ciucci ha assunto le funzioni di amministratore delegato. Il compenso annuale di Ciucci è stato di oltre 700.000 euro annui pagati, a quanto consta, da Fintecna. Rilevante, poi, è stato l'incremento dei costi del personale (stipendi), passati da 1.453.000 euro del 2002 a 6.590.000 euro del 2006, relativi ad una consistenza di 36 unità nel 2002 è di 102 unità nel 2006, che sconta i trasferimenti all'ANAS di 18 unità. Altrettanto rilevante è stato, infine, l'incremento dei "costi del personale, comprensivo di tutti gli oneri di competenza - sociali - TFR - altri costi" passati da 2.067.000 euro nel 2002 a 9.272.000 euro del 2006 con un incremento di circa 7.200.000 euro nel 2006 rispetto al 2002
In Sicilia i vertici delle partecipate sono affetti da irredimibile elefantiasi. La Cape, cinque dipendenti e altrettanti amministratori, pure. In tre anni ha concluso tre progetti. Adesso si attende che i 14 milioni di euro investiti producano qualcosa.
Non è andata meglio nemmeno con SICILIA PATRIMONIO IMMOBILIARE guidata da un presidente che guadagna 105.794 euro l’anno. Costituita nel 2006 per dismettere palazzi ed edifici della regione, non ha ancora venduto nemmeno un metro quadrato.
Nell’elenco ci sono anche società che straripano di personale. Come la BENI CULTURALI, 1.099 dipendenti, che gestisce molti siti archeologici siciliani. Senza lesinare sugli organici, come dimostrano i 23 custodi incaricati di sorvegliare Palazzo Mirto, a Palermo.
L’ENTE Autostrada Messina Palermo con 250 km di pessimo esercizio ha ben 22 casellanti, nell’era del tecnologico che garantisce caselli automatici dappertutto. Mettere le mani in questo viluppo di sperperi non sarà semplice. Ne è conscio anche Lombardo che da un anno annuncia dimagrimenti e accorpamenti. Le cose non sono andate come sperava. Solo qualche società è stata messa da poco in liquidazione. E il personale è cresciuto. La Beni culturali, per esempio, a gennaio ha assunto 413 catalogatori. Tutti, ovviamente, indispensabili alla causa.